Giovanni Costantini, direttore d’orchestra, violoncellista, progettista culturale e formatore in ambito musicale, sarà ospite domenica 23 giugno di Superpark, l’iniziativa estiva organizzata dal Parco Naturale Adamello Brenta in collaborazione con Impact Hub che coniuga escursionismo, cinema, cultura ed educazione ambientale. “Qui c’era una storia importante da raccontare. Quindi abbiamo puntato su una commistione di parola e suono attraverso la quale raccontiamo al pubblico la storia di Anima, con i testi di Marco Albino Ferrari e le musiche di Giovanni Bonato”.
Giovanni Costantini, direttore d’orchestra, violoncellista, progettista culturale e formatore in ambito musicale, sarà ospite domenica 23 giugno di Superpark, l’iniziativa estiva organizzata dal Parco Naturale Adamello Brenta in collaborazione con Impact Hub che coniuga escursionismo, cinema, cultura ed edAlberi e pietre ti insegnano quello che non potrai mai imparare dai maestriucazione ambientale. Costantini parteciperà in mattinata all’escursione in val di Fumo, messa a punto assieme a Madonna di Campiglio Azienda per il Turismo S.p.A. Un’ottima opportunità per conoscere da vicino il suo lavoro, ed in particolare il progetto Anima, per il quale Costantini ha curato anche il percorso espositivo omonimo realizzato in collaborazione con il Muse.
Innanzitutto, le chiediamo della sua vita che si divide fra il Trentino e il Veneto, come scrive anche nel suo sito web.
Quella volta sono nato Veneto. Ma amo il Trentino e la sua gente. In generale, amo tutti i popoli più vicini alla montagna e al sentimento mitteleuropeo. Dove ci sono montagne sono più a mio agio. Il Trentino è la terra interamente montuosa più vicina al luogo in cui sono nato, Vicenza. Inoltre ha avuto uno sviluppo turistico sempre molto importante ma un po’ diverso da quello della mia regione, fra Lavarone e Asiago le differenze sono evidenti, anche se siamo sempre nell’ambito dei territori cimbri. Lo stesso vale per Campiglio e Cortina. Entrambe hanno una piega commerciale forte, ma in Trentino mi pare che l’attenzione al territorio e all’ambiente siano state maggiori. Il cambiamento significativo è avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale ed è dovuto a scelte di sviluppo diverse, che impattano anche sui servizi e la qualità della vita dei cittadini. Mi chiedo sempre se ad esempio Venezia sarebbe quella che conosciamo oggi, anche con i suoi problemi nel gestire i flussi turistici, se fosse stata trentina. Comunque amo fare la spola fra Trentino e Veneto. Amo percorrere i passi di montagna con la lentezza dovuta, la Fricca, della Borcola, soffermarmi ad ammirare il paesaggio.
In Trentino viene in questi giorni per partecipare, domenica alla escursione di Superpark ma anche per il primo concerto, il 4 luglio al Muse, del progetto Anima. Di che cosa si tratta?
Anima è una storia molto lunga. Il desiderio iniziale è stato quello di lasciare dietro di me qualcosa di valore. È un desiderio molto umano, fin dai tempi antichi. Anima parla di questo. Di qualcosa che ha una vita più lunga della caducità umana. E questo qualcosa lo troviamo nella dimensione della natura, che però, lavorata dall’uomo, può assumere un valore anche maggiore.
Al centro di tutto cosa troviamo?
Un albero secolare con 250 anni di vita alle spalle, l’avez del prinzep degli altipiani cimbri, schiantato nel 2017 da un evento meteorologico in parte simile alla tempesta Vaia. Un evento che i climatologi ci dicono frutto del cambiamento climatico, cambiamento sul quale l’uomo incide in qualche modo. Anche se non significa che l’evento sia stato l’unico fattore scatenante. L’albero era alto oltre 52 metri, per quasi 6 metri di circonferenza. Ci volevano 4 persone per abbracciarlo. Fino a quel momento aveva avuto fortuna. Era sopravvissuto alle gelate della piccola glaciazione della seconda metà del 700, a due guerre mondiali, che si erano mangiate molto del legno presente sull’altopiano, allo sviluppo degli anni 60, alle piste da sci, all’arrivo dei grandi tralicci. Ed era sopravvissuto alla fame di caprioli e camosci, che sono ghiotti di abete bianco. Però, ad esempio, negli anni 60 dei ragazzi avevano acceso un fuoco sotto l’albero, che lo aveva danneggiato, favorendo l’entrata dei parassiti, che lo avevano svuotato fino a 7 metri, circa.
In quella notte di vento l’albero si schianta.
Sì, e la comunità si interroga su cosa fare di questo legno “sacro”. Fra le varie idee c’è la mia: realizzare degli strumenti ad arco, coinvolgendo anche un liutaio trentino, Gianmaria Stelzer. Parliamo di un quartetto: 2 violini, una viola e un violoncello. Significava dare a quel legno un’aspettativa di vita altrettanto lunga di quella che aveva già alle spalle perché fra i manufatti in legno di uso comune, cioè quelli che non finiscono in un museo, gli strumenti musicali si candidano ad essere quelli che vivono di più. Anche perché se lo strumento è di qualità con il passare degli anni acquista valore.
Sono gli strumenti che verranno suonati per la prima volta al Muse.
Sì. La prima cosa da dire è che li abbiamo lasciati bianchi, senza la vernice che normalmente i liutai danno loro, il che li rende molto riconoscibili. La tradizione europea e internazionale vuole che i violini vengano realizzati con l’abete rosso. Il nostro abete era bianco. Assieme a Gianmaria abbiano deciso di rendere ancora più evidente questa scelta. Anche perché studiando la cosa abbiamo visto che già in passato si usava a volte anche il legno dell’abete bianco ed inoltre che l’inferiorità del bianco è solo supposta. Forse la fama del rosso è dovuta, oltre che a ragioni estetiche, anche al fatto che è più facile da lavorare, le sue venature sono più rettilinee, mentre gli strumenti di Anima hanno le irregolarità tipiche dell’abete bianco.
Il repertorio che avete scelto?
Non volevamo un concerto tradizionale. Qui c’era una storia importante da raccontare. Quindi abbiamo puntato su una commistione di parola e suono attraverso la quale raccontiamo al pubblico la storia di Anima, con i testi di Marco Albino Ferrari e le musiche di Giovanni Bonato, docente al conservatorio di Padova specializzato negli effetti sonori e grande conoscitore della cultura cimbra. Sul palco abbiamo anche il corno delle Alpi e le percussioni. In futuro ci presenteremo al pubblico con vari format: spettacolo, talk, conversazione-concerto. Il messaggio rimane lo stesso.
Nel suo percorso valorizza molto questo genere di “contaminazioni”.
Ho studiato violoncello al Conservatorio, e poi anche direzione di orchestra. Ma non ho mai esaurito con la musica il panorama dei miei interessi, che vanno anche all’ambiente alla parola scritta e recitatata. Io credo che qualunque fenomeno artistico – soprattutto la musica classica – non possa essere slegato dal tempo e dal luogo in cui lo realizzi. Perciò secondo me abbiamo bisogno di fare un grosso lavoro di attualizzazione artistica delle opere del passato, non tanto sul versante operistico, che già si serve della parola, e quindi “arriva” di più, ma proprio della musica strumentale, da camera. Bisogna spiegare la storia da cui la musica proviene o creare un contesto in cui l’emozione dell’opera si manifesti. L’esecuzione fine a se stessa della musica di 150 anni fa, per appassionati e addetti ai lavori, la fanno già altri colleghi. La mia attività è quindi molto improntata alla creazione di un nuovo pubblico. Ogni volta che vado sul palcoscenico è un’occasione per me per parlare con la gente. Questo si sposa anche con la mia attività di formatore, che ho sviluppato anche in Trentino. Al centro del mio lavoro c’è sempre l’obiettivo di avvicinare una certa musica ad un pubblico che fino a quel momento non l’aveva apprezzata.
In Trentino c’è una forte tradizione di musica popolare, i cori di montagna affascinarono anche Arturo Benedetti Michelangeli. Come considera il rapporto fra musica classica e altre espressioni musicali?
Se c’è un pensiero culturale dietro allora ha senso svilupparlo. Se il pensiero invece è puramente commerciale – faccio un concerto di musica classica e ci infilo qualche pezzo pop per fare audience – non si arriva da nessuna parte. Sento spesso dire che la musica è il linguaggio universale, della pace e così via. Questa è una sciocchezza. La musica come ogni altra espressione culturale ha un carattere identitario fortissimo. Oggi è difficile parlare di identità perché è una espressione di cui si sono appropriate alcune forze politiche. Mentre con questa espressione indichiamo un patrimonio che va conosciuto e difeso. Dopodiché, è giusto che questo patrimonio venga messo anche in dialogo con altre identità, un dialogo non-violento. Vediamo succedere cose bizzarre. Ad esempio, bandire la musica russa, per via di quello che sta succedendo in Ucraina, è una sciocchezza. Per contro, io voglio sentire il gospel, a Natale, ma preferirei che a eseguirlo fossero quelli che lo hanno inventato, non le sue imitazioni nostrane. Abbiamo bisogno di conoscere ed eseguire la nostra musica, così come abbiamo bisogno di mangiare i nostri prodotti. Poi ben venga mangiare ogni tanto anche qualcos’altro, ovviamente.
Cosa direbbe ad un giovane che vuole intraprendere la strada della musica in maniera anche professionale?
Quello che ho detto a mia figlia. Se le cose restano così in Italia penso sia opportuno che i giovani vadano via. Se vogliono lavorare felicemente ed ottenere anche un riconoscimento sociale per ciò che fanno devono andare in un paese dove se monti in metropolitana con un violino la gente non ti guarda strano, ma sa che sei un professionista che sta andando al lavoro. Qui si pensa ancora alla musica come ad un hobby.